di Nora Inwinkl.
I governi locali possono rivestire un ruolo decisivo nella promozione e nel rafforzamento dell’economia solidale. La loro vicinanza tanto alle persone quanto ai territori permette loro di essere interlocutori diretti e al tempo stesso attori dei processi di cambiamento che si producono nelle nostre città. Basti pensare al fatto che gli enti locali sono da sempre incaricati di provvedere alla diffusione dei servizi di base, alla promozione dello sviluppo locale, alla pianificazione territoriale ecc. Cosa possono quindi concretamente fare concretamente i governi locali e cosa stanno già facendo in alcuni paesi europei per promuovere la diffusione dell’economia solidale? Ne abbiamo parlato ad Atene al congresso UniverSSE durante l’incontro “Local government and SSE: political direction and synergies” con Patricia Andriot di RTES (Réseau des collectivités Territoriales pour une Economie Solidaire – Francia), Ivan Mirò della XES Catalunya (Xarxa d’Economia Solidària – Catalogna), Giorgos Kolebas di Eco-farmer (Grecia) Vasilis Bellis dell’Agenzia di Sviluppo di Kardista (Grecia).
A Barcellona da due anni la giunta guidata da Ada Colau ha costituito il Commissionat d’Economia Cooperativa, Social i Solidària i Consum, che lo scorso autunno ha presentato il Piano d’Impulso dell’Economia Solidale con i due obiettivi principali di promozione e sostegno di pratiche orientati ai suoi principi e valori. Un budget totale di oltre 24 milioni di euro per 5 anni di lavori iniziati già nel 2015, con l’insediamento del nuovo governo. Anche dove non c’è un assessorato o un dipartimento dedicato si possono trovare azioni e/o strumenti di policy orientati allo sviluppo dell’economia solidale. Un esempio molto noto è quello dell’istituzione di una moneta complementare che serva a ridurre l’inuguaglianza sociale, a risollevare il commercio locale, ad allontanarsi da logiche finanziarie speculative, ad evitare la “fuga di ricchezza” e molto altro. Certo la moneta, in quanto strumento non neutro, può essere usata in vari modi e per questo è importante che vi sia una chiara definizione degli obiettivi e delle modalità del suo utilizzo. Esempi interessanti in questo senso sono il Bristol Pound e la Turuta di Vilanova i Gertrù, ma ce ne sono molti altri (per un approfondimento di questo tema vedi in questo stesso sito l’articolo sulle monete sociali).
I governi locali possono anche adottare delle clausole sociali nella contrattazione pubblica, ponendo in risalto criteri come l’inclusione di fasce della popolazione vulnerabili, la sostenibilità ambientale, la parità di genere ecc. e non solo l’efficienza economica. È noto infatti quanto sia difficile per imprese di piccole dimensioni e orientate all’economia sociale e solidale partecipare a bandi pubblici dove vince sempre chi presenta il budget più basso, un risparmio che troppo spesso si ottiene sulla pelle di lavoratrici e lavoratori e sulla salute dei nostri territori. Spostando lo sguardo sui partenariati e sulle nuove forme che l’amministrazione locale può assumere, è possibile citare i Regolamenti per l’amministrazione condivisa per la cura dei beni comuni, promossi da Labsus e approvati in oltre cento Comuni italiani.
Negli ultimi decenni, i fenomeni di rescaling che hanno investito l’organizzazione dello Stato nazionale hanno avuto veri esiti, tra cui il decentramento amministrativo che ha comportato, tra le altre cose, l’aumento dell’autonomia degli enti locali e il trasferimento verso di essi di nuove funzioni da parte dei governi centrali. A questo aumento di autonomia e responsabilità non corrisponde però un aumento dei trasferimenti statali, iniziati a diminuire nella seconda metà degli anni Settanta a seguito della crisi che ha investito le democrazie occidentali e del progressivo indebolimento del Welfare State. Il governo della città viene così messo sotto tensione poiché si trova a rispondere alle domande crescenti della popolazione pur disponendo di capacità di intervento sempre più limitate, conseguenza diretta della riduzione delle risorse dello Stato centrale.
Le città sono così spinte a reinventarsi, a ricercare nuovi modelli di sviluppo e, soprattutto, di reperire risorse aggiuntive ricercando nuovi partner. L’approccio mainstream sostiene che per ottenere risorse extra le città devono competere con altre città per attrarre investimenti, grandi aziende – preferibilmente multinazionali -, grandi eventi (olimpiadi, expo, ecc.), businessmen e top manager per affermarsi in una competizione globale guidata da vere e proprie classifiche. È un paradigma tutto sommato semplice: se gli enti locali vogliono risorse devono attrarre capitali privati, preferibilmente transnazionali. Dagli anni Ottanta si configura quella che David Harvey ha definito la ‘città imprenditoriale’, nella quale gli amministratori pubblici costruiscono alleanze per attrarre risorse esogene e attivare quelle endogene.
È l’egemonia del paradigma neoliberista che, tra le altre cose, indirizza le politiche urbane verso strategie di privatizzazione attraverso partenariati con attori privati legati al mondo delle grandi imprese, anche multinazionali, e che promuovono modelli di sviluppo competitivi, escludenti e orientati all’accrescimento del profitto di queste imprese a scapito dell’interesse pubblico. L’economia solidale può (e in alcune parti già lo sta facendo) proporsi come ‘paradigma alternativo’ che riporta al centro di queste policy le persone e il loro bien vivir (o meglio bem viver, come ci insegna Euclides Mance), con un approccio inclusivo e con strategie orientate alla ri-pubblicizzazione dei servizi e al sostegno dei beni comuni. Necessario è il coinvolgimento delle comunità locali in un’ottica cooperativa e di collaborazione, attraverso strutture di rete orizzontali e attraverso pratiche e discorsi che contrastino il maschilismo e il patriarcato da sempre imperanti.